“Razzismo eterno”? La persistenza delle radici tra passato e presente

Ronald Car, Natascia Mattucci

Abstract


Quanto ci siamo veramente allontanati dall’età degli Imperi strutturati sulla dominazione delle razze «avanzate» su quelle «arretrate»? L’attuale dipendenza/sudditanza del “sud globale” dal “nord globale” sembra giusti- ficata dall’argomento classico del liberalismo ottocentesco, la meritocrazia. All’epoca, il successo scontato della élite bianca/occidentale/maschile nella competizione sociale era giustificato teorizzando una gerarchia naturale tra classi, razze, etnie e generi. Oggi la competizione sociale – il “privato” – è scarsamente accessibile alle forme di contestazione democratica previste dai canali istituzionali (trans)nazionali. Sul piano del senso comune, il diva- rio economico nord-sud permea l’ordine globalizzato ed è talmente radi- cato da essere ormai considerato “naturale” e “a-storico”. Essendo fuori portata per le categorie della politica e del diritto, esso tende ad assumere forme violente di un conflitto per la preminenza razziale. Questa preminen- za richiama l’atavico fatalismo delle dottrine razziste. Un fondo inamovi- bile in cui le azioni di un gruppo umano o di una classe appaiono naturali e indipendenti dai rapporti sociali, precedendo ogni storia e condizione concreta. In questa prospettiva, la visione quasi “eterna” del razzismo tende a proiettare le dinamiche storiche in una dimensione atemporale e astratta. Anche se il razzismo contemporaneo presenta molte metamorfosi, bisogna metterne a fuoco il «gesto ancestrale» con cui si separa il civile dal selvaggio, l’umano dal disumano. L’incatenamento al corpo o al suolo genera un’esclusione permanente e dolorosa. Questo approccio esige uno sguardo ampio e di lungo periodo che vada oltre il razzismo periferico che ha a lungo caratterizzato la narrazione storica di alcuni paesi.

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How far have we really moved away from the age of empires structured on the domination of the “advanced” races over the “backward” ones? The current dependence/subjection of the “global south” by the “global north” seems justified by the classic argument of nineteenth-century liber- alism, meritocracy. At the time, the obvious success in social competition of the white/western/male elite was justified by theorizing a natural hierarchy between classes, races, ethnicities and genders. Today the social compe- tition – the “private” – is scarcely accessible to the forms of democratic contestation envisaged by the (trans) national institutional channels. In terms of common sense, the north-south economic divide permeates the globalized order and is so deeply rooted to be considered “natural” and “a-historical”. Being out of reach for the categories of politics and law, it tends to take on violent forms of a conflict over racial prominence. This prominence recalls the atavistic fatalism of racist doctrines. An irremovable background in which the actions of a human group or class appear natu- ral and independent of social relations, preceding all history and concrete conditions. In this perspective, the almost “eternal” vision of racism tends to project historical dynamics into a timeless and abstract dimension. Even if contemporary racism presents many metamorphoses, it is necessary to focus on the “ancestral gesture” that separates the civilized from the savage, the human from the inhuman. Chaining to body or place produces perma- nent and painful exclusion. This approach requires a broad and long-term gaze that goes beyond the peripheral racism that has long characterized the historical narrative of some countries.



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DOI: http://dx.doi.org/10.13138/2037-7037/2662

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