La paura delle «classi pericolose». Ritorno al futuro?

Luigi Lacchè

Abstract


Negli ultimi anni il tema delle “classi pericolose” si è riaffacciato nel dibattito pubblico e in quello scientifico. Tale fenomeno è da ricollegare, almeno in parte, al discorso che ha (ri)messo al centro dei sistemi penali e dei regimi di prevenzione un lessico che enfatizza la costellazione concettuale della pericolosità.

Il ricorso alla figura della “classe pericolosa” può essere visto come “spia” di una accresciuta enfasi posta su un’idea di diritto penale “attuariale” che potenzia il “polo” della pericolosità, del sospetto, dei “modi di essere”, dei tipi d’autore, di alcuni specifici percorsi di criminalizzazione. In particolare, è stato il tema dell’emigrazione a essere collegato, pur nella sua irriducibile complessità, alla originaria distinzione – ormai declinata in chiave “postmoderna” – tra “classi laboriose” e “classi pericolose”, tra un uso di manodope- ra abbondante e sottopagata, quasi sempre in condizioni forzate di illegalità e di radicale marginalizzazione, e l’enfasi posta sullo straniero che diventa stereotipo, “minaccia” incombente, manovalanza criminale, seme di insicurezza e di pericolosità. Si torna a vedere l’uso di concetti e a “sentire” parole che sembravano confinate a esperienze del passato.

In questa sede vogliamo approfondire, in particolare, alcuni profili del rapporto tra paura, allarme sociale e l’idea delle classi pericolose che comincia a prendere forma in Europa tra XVIII e XIX secolo.


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DOI: http://dx.doi.org/10.13138/2704-7148/2221

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